domenica 24 giugno 2012



Anti-Risorgimento. E' un'espressione che circolò in certi anni del fascismo come rifiuto della rivoluzione liberale, come rifiuto dell'Italia, e dell'Europa, moderna. Non a caso, nel periodo del massimo consolidamento della dittatura, operò una rivista, non priva di crismi e di incoraggiamenti ufficiali, che si intitolò "Anti-Europa". E che tendeva ad approfondire il fossato in tutti i sensi e in tutti i campi, fra "gli immortali principi" della Rivoluzione francese, connessi alla soluzione risorgimentale, e la nuova realtà - ordine, gerarchia, impero - riflessa nella svolta del fascismo. Nella sua essenza pragmatica e polivalente, nel suo sterminato "relativismo" (che spiegherà poi gli equivoci di Giuseppe Rensi), il movimento fascista fu ambiguo e ambivalente quant'altri mai rispetto all'eredità risorgimentale. Diviso, come sempre, a metà. Un filone, quello di Gentile, che derivava le sue ispirazioni dalla destra storica risorgimentale e aveva per suo primo progenitore Gioberti. Un altro filone, quello di Malaparte, che alzava la bandiera dell'"Italia barbara" contro l'"Italia civile", che esaltava tutti i dati dell'autoctonia pre-risorgimentale pur di rifiutare la contaminazione europea, la deviazione giacobina, l'influenza rivoluzionaria. Fu quello di Malaparte un indirizzo che si estese poi, in forme diverse e diversamente intonate, allo "strapaese", al "selvaggio", a tutte le mode, artistiche o letterarie, di contrapposizione di una primigenia realtà italiana al moto italiano, composito e "corruttore" del Risorgimento. Rigettato in una chiave quasi caricaturale. Respinto nei suoi grandi principi ispiratori, l'umanità, la giustizia, la libertà: soprattutto nell'innesto, tutto mazziniano e tutto democratico, fra patria e umanità. "Quell'Italia antica, tradizionale, storica, ingenua, che tuttora vive, nonostante i decreti e le ordinanze, in un'Europa civilissima, borghese e possidente ... ". Era quell'Italia cui si richiamava il manifesto dell'"Italia barbara" fin dal 1925. Ed è singolare - a confermare la complessità della storia italiana - che il volume-pamphlet di Curzio Malaparte (ancora Suckert) sia stato pubblicato a Torino da Piero Gobetti editore ormai alle soglie del suo sacrificio finale nella lotta contro il fascismo. "Presento al mio pubblico il libro di un nemico", diceva Gobetti nella sua breve avvertenza editoriale. E aggiungeva con un graffio rivelatore dell'uomo: "confutare immagini, opporre politica a variopinta fantasia o a stile pittoresco non è di mio gusto". In realtà quelle fantasie e quelle immagini, al limite del paradosso, costituiranno uno degli aspetti fondamentali della deformazione fascista della storia del Risorgimento, di quel vero e proprio distacco dagli ideali del riscatto nazionale che si prolungò per tutti gli anni in cui si tentò la riabilitazione del cardinale Ruffo e delle bande della "Santa Fede" contro Garibaldi, in cui si ripercorsero le orme dei vecchi reazionari, come Solaro della Margarita, contro Cavour, in cui si tessé l'elogio del "Viva Maria" e della rivolta autoctona del contadiname italiano contro le idee giacobine importate dalla rivoluzione francese e imposte dai soldati di Napoleone, generale del Direttorio. La polemica delle Leghe contro il Risorgimento - un vero e proprio processo, Garibaldi paragonato a Renato Curcio, Mazzini associato a Toni Negri e Cesare Battisti chiamato "avventuriero" -ci riporta a taluni di quei motivi, in un clima e in una situazione completamente diversi, ripropone temi e rilancia accuse, e anche invettive, e anche scomuniche, tipiche dell'anti-Risorgimento di una volta, degli anni fra le due guerre, ma non solo di quelli. Il contrario del 1945-46, nel momento della liberazione. Tutto quel rimescolio, fra destra dinastica e destra popolaresca, sembrò spazzato via dalla Costituente e dalla fondazione della Repubblica il 2 giugno. Nella scia della lotta della Liberazione che si era ispirata costantemente a motivi e a richiami risorgimentali, rivissuti sullo sfondo della tragedia italiana. Saltato a piè pari il periodo fascista, il Risorgimento tornava d'improvviso ad imporsi nei simboli, nelle bandiere della resistenza, nelle insegne della guerra partigiana (la "guerra combattuta" di Pisacane). Con tutte le speranze repubblicane deluse e umiliate; con le connesse, o di poco successive, speranze socialiste riaffioranti all'orizzonte, in un quadro che opponeva la tristezza del presente alle glorie del passato. E di qui, già sullo sfondo della Consulta prima ancora di qualunque elezione libera, nel settembre 1945, lo scontro circa l'Italia post-risorgimentale, e i limiti democratici dello Stato liberale, fra i rappresentanti di due diverse visioni della vita e della storia italiana, fra Benedetto Croce e Ferruccio Parri, il primo presidente del Consiglio dell'Italia liberata, il leggendario "Maurizio" della lotta partigiana. In quegli anni del dopoguerra non riesplose la polemica che aveva distinto i primi anni 30 fra Benedetto Croce e Luigi Salvatorelli. La polemica cioè sulla continuità della storia d'Italia, così illuminante per le future generazioni. Croce fermissimo nella sua concezione della identità fra l'atto di nascita dello Stato italiano (marzo 1861, con la proclamazione del regno d'Italia nel Parlamento subalpino) e l'entrata dell'Italia nella vita delle nazioni, e quindi nella vita mondiale. Uno Stato italiano che nasceva insieme con l'unità italiana; un quid novum che si contrapponeva a tutte le tradizioni dell'Italia spezzettata e frantumata degli Stati regionali e assolutisti, che iniziava una pagina completamente nuova, una pagina completamente bianca. Abbastanza gloriosa per essere riempita da sola. Dall'altra parte Salvatorelli, e non solo Salvatorelli, fermo nel rivendicare una continuità della nazione Italia come comunità di lingua e di cultura fin dalla scoperta del volgare, cioè dall'età di San Francesco e di Dante. Quella certa idea dell'Italia che aveva costituito il nucleo del Risorgimento nazionale e la spinta fondamentale dello stesso Mazzini. L'Italia che si era formata come coscienza di se stessa, della sua unità linguistica e culturale, sei o sette secoli prima del Risorgimento, che diventava Risorgimento, e non Sorgimento e non Nascita, proprio in virtù del nesso morale e linguistico fra tutti gli italiani, preesistente all'unificazione materiale della penisola, al di là delle paratie o delle barriere opposte dalle varie frontiere, artificiali e provvisorie. Vent'anni fa parlai di "autunno del Risorgimento", ma oggi siamo di fronte a un fenomeno del tutto diverso. Non c'è più l'autunno, non c'è più l'abbandono, non c'è più neanche l'ironia che percorse quegli anni rispetto ai valori di un'Italia discreta, l'"Italia civile" detestata da Malaparte e difesa da Bobbio. No. Oggi c'è un vero rifiuto, sia pure in settori limitati della società italiana, delle tavole di valori dell'unità nazionale, c'è un tentativo evidente di spostare le carte di fondazione dello Stato dall'unità fra primo e secondo Risorgimento alla esistenza di una realtà regionale preesistente allo Stato e sopravvissuta ai centotrent'anni di regime nazionale. Quasi che l'identità della Liguria o del Veneto avesse una preminenza su quella realizzata nelle lotte del primo e secondo riscatto nazionale. Quel rifiuto, che si esprime nelle Leghe, ha gravi conseguenze politiche. Il Risorgimento non è solo il titolo di identità nazionale per l'Italia, è il massimo titolo della sua identità europea. L'unificazione nazionale fu realizzata in stretta correlazione con l'Europa, contro ogni illusione autoctona. Il motto "l'Italia farà da sé" si risolse presto nei rovesci subìti da Carlo Alberto nel 1848 sui piani padani. E l'illusione neoguelfa si disperse con tutte le nebbie del "primato" giobertiano. L'Italia nacque come parte essenziale dell'Europa, sentita come civiltà comune. Mazzini fondò la "Giovane Europa" a tre anni di distanza dalla "Giovane Italia". La democrazia repubblicana e garibaldina fu sempre di respiro europeo e mai chiusa in paratie nazionaliste. Il liberalismo cavouriano respirò nell'aura dell'Occidente, guardò al modello britannico, risentì le influenze svizzere. Il "no" all'Italia unita è in realtà il "no" all'Europa.

Giovanni Spadolini, L'Anti-Risorgimento
"Apulia", 3/1991

sabato 5 dicembre 2009

l'antirisorgimento




Guardo la carta d' Europa,e sento lo sforzo di quell' appendice geografica di staccarsi dal "corpaccione" asiatico protendendosi vero l' Atlantico e il Mediterraneo.
Un corpo centrale compatto, dalla Polonia alla Francia, lancia al Nord la penisola scandinava (un' Italia malriuscita) e un' esile punta danese; al Sud, una Spagna tozza e una Grecia che va in frantumi.
Al Nordovest si è distaccata la forma piumata dell' Inghilterra, e al centro del Mediterraneo quella di un' Italia chiomata, che si distende restringendosi alla vita e articolandosi alle estremità. A quella figura elegante non si addice l' immagine sgraziata dello Stivale, ma piuttosto quella di una signora, leggiadramente fluttuante sul mare. Una penisola lunga, un po' troppo lunga, dissero gli Arabi, che la tormentarono per tanto tempo senza riuscire a possederla tutta intera, come del resto tante altre nazioni dominatrici, tranne Roma, che però la immerse in un grande impero. Di questa un po' eccessiva lunghezza si tratta qui, e delle vicende che hanno reso, attraverso la storia, tanto problematica e che tuttora, a distanza di centocinquant' anni, insidiano la sua definitiva unificazione.
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Il 1861, anno dell' unificazione del regno, è l' anno in cui si compie il grande moto del Risorgimento. Ma è anche quello in cui esso comincia a invischiarsi nella grande palude dell' "Antirisorgimento".
L' Antirisorgimento si sviluppa, successivamente, in tre forme storiche.
La prima è la corruzione del patriottismo risorgimentale nel nazionalismo aggressivo, che nasce dal gigantesco complesso d' inferiorità di una piccola borghesia frustrata da secoli di servitù. Cavalcando la denuncia delle fragili istituzioni democratiche create dal nuovo Stato, esso precipiterà il paese nel massacro di una guerra mondiale e nell' avventura retorica e populista del fascismo. La nazione mussoliniana è l' antitesi della patria mazziniana.
Là dove quella era concepita come parte di un generale affratellamento dei popoli europei e di un grande moto di solidarietà sociale, questa è l' espressione del primato militarmente aggressivo, e socialmente oppressivo, di un' élite violenta e dissennata. La seconda consiste nel condizionamento dello Stato italiano da parte della Chiesa cattolica e della sua massiccia presenza a Roma. Che lo si voglia riconoscere o no, in Italia esistono due sovranità, non una: la sovranità nazionaleè limitata da quella ecclesiastica. Si può fingere di non vedere. Nondimeno questa è la realtà che si esprime nei Concordati, e che tutti i discorsi sull' armonia tra le due istituzioni non riescono a dissimulare.
La terza è la questione meridionale. Il carattere antirisorgimentale di conquista del Sud da parte della monarchia sabauda si rivela immediatamente dopo che le camicie rosse sono scomparse, sostituite dalle uniformi blu dei soldati del re, nella cosiddetta «guerra del brigantaggio»: in realtà, una repressione violenta delle plebi contadine, schiacciate con la connivenza dei baroni.
È proprio nella fase più avventurosa del Risorgimento, quella rappresentata dall' unificazione con il Sud, che un' impresa nata sotto l' insegna della liberazione si corrompe in mera conquista, segnando tra le due parti del paese un solco fatale, che i tanti sforzi successivi non riusciranno a colmare.
Se, con un nuovo salto storico, approdiamo ai giorni nostri, dobbiamo domandarci quanta parte di queste tre minacce insidi ancora il nostro paese, a centocinquant' anni dal compimento della sua unità.
Certo, la minaccia fascista è scomparsa; anche se non ne è affatto scomparsa la nostalgia, che si manifesta attraverso una continua campagna di denigrazione di quel secondo Risorgimento cheè stato rappresentato dalla Resistenza. Al posto del fascismo, tuttavia, si è installata nel popolo italiano un' altra forma di ripugnanza per le istituzioni della democrazia, un "anti-antifascismo" che non fa appello alla retorica nazionalista, maa un' altra forma di populismo privatistico, non più trascendente nel sentimento patriottico, ma nel tifo calcistico.
Tutt' altro che scomparsa è la seconda insidia, quella del protettorato cattolico, che trae dal neoguelfismo una tradizione illustre.
E infine, l' insidia più grave, conseguenza del fallito compimento dell' unità, è quella costituita dalla decomposizione, presente al Nord in forme tutto sommato pacifiche, anche se bizzarramente provocatorie, e incombente al Sud nella secessione criminale delle mafie, che sequestrano zone intere della Repubblica.
Questa è la vendetta suprema dell' Antirisorgimento che il paese, a centocinquant' anni dall' unificazione, deve fronteggiare. Sarebbe triste se le sue speranze di superarla fossero tutte affidate a un' Unione Europea cui, anziché offrire l' esperienza di una ricca tradizione di diversità, si fosse costretti a chiedere di tirare la carretta di una penisola troppo lunga e sconquassata.
Ma una speranza, per quanto controversa, c' è.

Giorgio Ruffolo, Cosa mette a rischio l'unità nazionale
la Repubblica, 4 dicembre 2009

Un paese troppo lungo, Einaudi, 2009